giovedì 12 marzo 2020

Caro Coronavirus, tu non avrai la meglio


Non l’ho fatto per un senso di onnipotenza. Ormai avevo già pagato tutto: albergo, volo, navetta da Malpensa alla Fiera e ritorno. Di questi tempi perdere i soldi, anche se avevo fatto tutto a risparmio, un’imprenditrice come me – non piccola, ormai microscopica – non se lo può permettere.

Perciò ho chiamato la mia dottoressa, le ho spiegato che dovevo andare a Milano per un paio di giorni e ho chiesto se aveva suggerimenti in particolare da darmi. È sempre gentilissima, mi ha risposto che non c’erano particolari indicazioni, di cercare comunque di mantenermi a distanza, portarmi dietro un disinfettante per le mani, lavarmele il più spesso possibile e non preoccuparmi troppo.

Sono stata a Milano Unica il 4 febbraio e ho girato tra padiglioni che non ho mai visto così silenziosi, in un’ambientazione elegante, composta, in un’atmosfera rarefatta e vigile, con un certo numero di visitatori italiani e nella quasi totale assenza di orientali. Siccome per la fiera un giorno mi era bastato, in attesa di prendere il volo della sera seguente ho trascorso tutto il giorno dopo a visitare il Castello Sforzesco e la mostra su Leonardo.

A fine pomeriggio tutti i custodi, tutti “sudisti”, mi riconoscevano e mi chiedevano a che punto fossi con la visita: “Ha visto la mostra? Il Museo degli Strumenti Musicali? Alla Pinacoteca c’è stata? Allora le manca la Pietà Rondanini. È facile, esca dall’ingresso principale, vada dritta sotto il portale e nell’atrio svolti a sinistra. In fondo al cortile c’è l’ingresso.” A me, romana col nonno materno siciliano, la nonna materna umbra, i nonni paterni pugliesi, un usciere calabrese ricondizionato a Milano, che mi sorride e mi fa una battuta, mi fa sentire a casa.

Da più di dieci giorni patisco brividi di freddo. Sto facendo la spunta sforzandomi di essere razionale. Mal di testa? Soffro di cefalea. Sudore? Stanchezza? La menopausa si avvicina. Febbre? Direi di no. Tosse secca? Difficoltà a respirare? Lo sai che soffri sempre d’inverno di tracheiti. L’altro giorno ho preso un po’ di freddo e sento un lieve fastidio, faccio le prove, trattengo il respiro, ogni tanto ho qualche colpo di tosse. Secca. Sembra che sia ancora tutto in ordine, ma siamo nella fase più critica. Se fossi ammalata tra qualche giorno potrei essere in condizioni molto più serie. E dovrei lasciare il posto a un malato più giovane di me perché io, anche se dentro mi sento ancora il fanciullino, non sono più una ragazzina. C’è voluto un virus per farlo ammettere a me stessa.

Dove? Al bar della fiera? In metropolitana? Mentre firmavo la scheda alla reception o la mattina dopo a colazione? Mentre chiacchieravo con Maria, la custode del Museo? Mentre ero in attesa all’aeroporto?

Tu non avrai la meglio. Io mi farò gli anticorpi e ti dirò ciao ciao. Ho un figlio da crescere. Ha bisogno di me. Ho bisogno di lui. È di te che non c’è bisogno. Tutto questo passerà e quando sarò vecchia ne parlerò ai miei nipoti: “Ora nonna vi racconta di quando ci fu il Coronavirus”. Forse.

lunedì 23 ottobre 2017

La tunica


- “Mamma, mi fai compagnia mentre mi addormento?”

- “E dai cucciolo, non ti sarai impressionato perché abbiamo parlato del gioco della balena blu…”
- “Un po’ sì, mamma…”
- “Perché, pensi che qualcuno venga a cercarti e ti costringa a giocare?”
- “Sì”
- “Cucciolo, ascoltami bene: nella vita le situazioni brutte possono essere tante e diverse. Non solo internet, anche la droga, l’alcool, gli amici sbagliati. Sei tu che devi tenertene alla larga perché le cose brutte non ci vengono a cercare, se capitano è perché le abbiamo cercate noi. Capito?”
- “Sì, mamma.”
- “Adesso non ci pensare e dormi, dai. Buonanotte cucciolo.”
- “Buonanotte mammina.”


Carla si era alzata presto la mattina dopo. Dopo un paio di tentativi si era accorta che anche passandoci sopra il ferro caldo la piega della tunica non si fissava perché mancava l’impuntura che doveva tenerla ferma. Aveva lavato l’indumento con molta cura perché era della parrocchia e teneva a riconsegnarlo pulito, profumato e ben stirato. Le comunioni si avvicendavano domenica dopo domenica e c’erano tre giorni di tempo per riportare le tuniche per i bambini del turno successivo. Il turno di suo figlio era stato fissato a metà maggio e il giorno di festa era stato accompagnato da una bella giornata di sole caldo trascorsa in riva al lago con un’affezionata compagnia di amici e familiari. Tutto si era svolto secondo i programmi, non c’era stato alcun contrattempo e restava soltanto quest’ultima incombenza.

Riposta nella busta di nylon la tunica, a cui aveva anche ricucito l’impuntura mancante, mentre con una mano la teneva sollevata per la stampella si avviò uscendo di casa attenta a non sfiorare muri, cancelli, vetture, qualunque cosa potesse lasciare tracce di polvere o grasso. La voleva riportare immacolata e fare la sua bella figura prima di andare in ufficio. Appesa la stampella alla maniglia sopra uno dei finestrini posteriori della sua auto si sedette alla guida e partì. Dopo un paio di chilometri di periferia, mentre rifletteva sul fatto di non aver considerato che il sole toglie il profumo ai panni stesi, e in effetti la tunica era sotto il sole cocente che batteva proprio da quel lato, arrivò all’incrocio e lo superò. Alla fermata dell’autobus notò la donna e ancora sovrappensiero si fermò subito appena la vide sollevare la mano per chiedere un passaggio. La fece salire davanti accanto a lei e ripartì chiedendole dove fosse diretta.


La donna, che prima di sedersi, con gesto deciso e senza domandare, aveva tolto un paio di auricolari poggiati sul sedile e li aveva messi sul cruscotto, riferì un incrocio qualche chilometro più avati. Carla rispose che l’avrebbe accompagnata fino a destinazione perché doveva passare da lì. “Stai andando al lavoro?” – chiese alla donna e questa rispose che sì, stava andando al lavoro quindi, come per sottolineare l’evidenza, aggiunse: “Io lavoro per strada”. Delle calze a rete Carla pensava che la dimensione della maglia fa la donna o la prostituta e in effetti ora osservava che la maglia delle calze della sua ospite era davvero larga. Con lo sguardo aveva seguito le gambe e aveva finalmente notato zeppa e tacco smisurato delle scarpe. Per il resto constatò però che l’abbigliamento era modesto, non appariscente e non c’era niente di ridotto ai minimi termini come spesso si vede per strada. Stentava a crederci: aveva dato un passaggio a una prostituta. Era lì che guidava e aveva seduta accanto una prostituta e realizzò che era una cosa brutta che non aveva cercato e nonostante ciò era capitata. Di colpo si sentiva vulnerabile, al di là della linea ideale di confine, di quel sottile impercettibile diaframma che da sempre separava la realtà delle vite giuste da quella delle vite sbagliate secondo la prospettiva con cui era abituata a filtrare i valori morali.

La donna aveva risposto con accento neutro, né sdolcinato né volgare, con tono semplice e schietto e senza alcuna ostilità così Carla, che non voleva sembrare curiosa – no, il termine esatto era morbosa – però in fondo lo era, alla fine, senza malizia, si decise: “Ti posso chiedere come fai a farlo? Come ci riesci?” ed era sinceramente interessata a capire come, senza il presupposto di un sentimento o dell’attrazione fisica, una donna possa consentire che estranei intimamente anche solo la sfiorino o, peggio ancora, come possa essere lei disposta a sfiorare intimamente degli sconosciuti. La donna rispose che non era stato facile all’inizio – anzi - ma poi si era abituata. Raccontò che aveva lavorato presso un ospedale per vent’anni con una cooperativa di servizi che un paio d’anni prima aveva licenziato tutto il personale. In seguito era stata richiamata, ma non era sufficiente perché era stato per poche ore e troppo saltuarie. Aveva la terza media, nessuna esperienza di lavoro in particolare, sapeva fare solo le pulizie, veniva dall’Albania e non voleva tornarci. “Là ti danno la terra, ma non ti danno i mezzi per sfruttarla. Ti danno la terra, ma non ti danno un trattore, non c’è acqua, devi fare tutto a mano, seminare, raccogliere… alla fine ti ammazzi di lavoro e fai la fame.” In Italia viveva con la sorella e il cognato in una casa che avevano comprato con un mutuo e lei ora non ce la faceva più a pagare la sua parte. La banca aveva già scritto per riprendersi l’immobile, lei aveva provato, aveva fatto domanda dappertutto, ma non era più riuscita a trovare un posto fisso. Alla fine aveva deciso di andare per strada. “Ma non è un lavoro per donne grandi. Ho quarantasette anni. Questo è un lavoro per ragazze giovani.” Si era sfilata i grandi occhiali da sole e l’aveva guardata con occhi piccoli, ravvicinati e in effetti segnati da diverse rughe. Non era bella, i tratti non erano raffinati, ma il viso era pulito, truccato leggermente. Mentre continuava a raccontare dell’Albania le era squillato il telefono e ora parlava con qualcuno di un tale che stava occupandosi di cercarle un lavoro o almeno così pareva le avesse promesso. “Perché davvero io spero di trovare qualcosa presto – stava dicendo - così non ce la faccio a andare avanti. Sì, grazie, grazie. No, non faccio niente. Che posso fare? Non ho soldi. Stasera torno a casa, mangio qualcosa e mi metto a dormire. Sì, grazie. Ci sentiamo domani.”

Chiuso il telefono si era voltata verso Carla. “Oggi è il mio compleanno. Ti rendi conto? È il mio compleanno e lo passo per strada.” Carla era frastornata. Si sentiva la spettatrice di un film. Era senza parole però non estranea, anzi coinvolta, partecipe. Nel frattempo aveva continuato a guidare e era arrivato l’incrocio dove la donna doveva scendere. “Mi puoi lasciare qui, grazie” - e girato l’angolo si fermarono. La donna si preparava ad aprire lo sportello e Carla volle anticiparla prima che se ne andasse: “Come ti chiami?” – le chiese. “Maria”. “Buon compleanno  Maria” – le disse. Maria si girò con un sorriso di simpatia e ringraziò, si strinsero la mano e andò via.

Carla ripartì diretta alla parrocchia. Il caldo si stava facendo torrido e per raffrescare l’aria abbassò un po’ anche i finestrini posteriori. Lo sguardo le andò agli auricolari sul cruscotto. Sporgendosi li prese e li rimise sul sedile poi pensò che arrivata in ufficio avrebbe dovuto lavarsi le mani, ma subito provò vergogna. Si obbligò a rifletterci su e si sentì sollevata quando ammise che lo avrebbe fatto, come era sua abitudine del resto, ma per la solita attenzione all’igiene non di certo per ribrezzo. Accelerò e dallo specchietto retrovisore vide la tunica che dietro sventolava spensieratamente nell’abitacolo, ma non se ne curò più di tanto. Un po’ sgualcita la riconsegnò in sacrestia alle donne incaricate e di spalle mentre se ne andava le veniva da sorridere tra sé e sé.

venerdì 25 novembre 2016

giovedì 6 ottobre 2016

Al supermercato

Ho ricordi di una volta, del banco dei vignaioli al mercato rionale, del gentilissimo sor Vittorio - il vinaio, dell'alimentari sotto casa dove mamma mi mandava a prendere giorno per giorno il parmigiano grattugiato ben stagionato, l'affettato fresco e profumato per le merende del pomeriggio, il pane che durava diversi giorni.
Ho ricordi di tante persone che mi servivano senza le infinite precauzioni di oggi e non ho ricordi di infezioni o terrori di batteri o altro per mancanza di guanti o pinze varie.
Da tempo invece, ogni volta che mi aggiro tra gli scaffali e i banchi dietro ai quali si affacciano dipendenti in divisa elegante dotati di ogni ammennicolo utile a mantenere la sacra igiene, non posso fare a meno di domandarmi: da dove verrà veramente il maiale del prosciutto? Quale miscuglio assurdo di olii extracomunitari (che forse non hanno mai visto un'oliva) ci sarà nell'elegante bottiglia verde? Come può essere che tra i limoni esposti quelli dell'Argentina sono bellissimi e freschi e meno costosi di quelli italiani che sono tutti mosci? Che miscuglio di polvere di latte avranno usato per il formaggio di gomma "tipo Norcia"?
Ho ricordi della spesa di una volta e del fatto che quando si portavano a casa le buste non ci si sentiva così presi per i fondelli.

giovedì 14 luglio 2016

Tra gli ulivi

Un inatteso violento stridio di lamiere squarcia il silenzio in un campo assolato del Sud a cui la sera restituisce la quiete. Allora immagino la luce di una luna esile, anime smarrite che vagano ancora tra gli ulivi pacifici e penso che una melodia gentile può accarezzare lo stupore, i sogni infranti, gli affetti interrotti, la vita che ripercorriamo in pochi istanti fulminei, l'abbraccio infinito e inscindibile tra madre e figlia, l'addio scivolato via sulle labbra.

lunedì 13 giugno 2016

Sinuosa Mente

Stai lì sfoggiando savoir faire
e pensavo che hai imparato a farlo bene,
ma una cosa è essere e un’altra è apparire
e credimi, penso proprio di poterlo dire.

Sinuosa mente fendi l’aria,
per chiunque tranne me un’ambita preda,
e per il tanto, a volte troppo, vissuto
penso che declinerò l’invito.

Cosa avremmo da dirci che non sappiamo già
col rischio di derive inaspettate,
senza più incanto, senza ambiguità
così aggrappati a teorie consolidate.

Già mi vedo sfogliare gli album dei ricordi
coi momenti non facili da ripensare.
Tu che racconti la tua storia,
io che fingo di non conoscerne il finale.

Perciò, perché funzioni di nuovo,
per darmi a una nuova vita,
dovrei convincermi che l’altra
non sia stata vissuta.



E non è che l’idea non mi attragga,
per qualche istante valuto i pro e i contro,
per qualche istante, solo per poco
immagino di rimettermi in gioco

poi ripenso alla fatica di capirsi,
di cucirsi addosso il vestito perfetto,
al tempo impiegato per plasmare lo stampo,
a un modo di essere da cui non c’è scampo.

Cosa potresti dirmi che io non sappia già
e a poco serve che tu fenda l’aria
per così dire, amabilmente
sinuosa mente.

O forse tu non pensi a più di tanto
perché mi viene il dubbio che sia io
quello che è rimasto indietro
e che tu l’abbia già compiuto il salto.

E allora siediti qui e dimmi,
per darti a una nuova vita,
come hai potuto convincerti che l'altra
proprio non sia stata vissuta.


giovedì 9 giugno 2016

Il latino è una lingua precisa, essenziale. Verrà abbandonata non perché inadeguata alle nuove esigenze del progresso, ma perché gli uomini nuovi non saranno più adeguati ad essa. Quando inizierà l'era dei demagoghi, dei ciarlatani, una lingua come quella latina non potrà più servire e qualsiasi cafone potrà impunemente tenere un discorso pubblico e parlare in modo tale da non essere cacciato a calci giù dalla tribuna. E il segreto consisterà nel fatto che egli, sfruttando un frasario approssimativo, elisivo e di gradevole effetto "sonoro" potrà parlare per un'ora senza dire niente. Cosa impossibile col latino.

Giovannino Guareschi

domenica 17 marzo 2013

Ogni occasione è buona

Si avvicina la Pasqua e guardo tra le offerte delle uova di cioccolata. A parità di peso il prezzo varia in funzione del personaggio stampato sulla carta e a quanto pare la carta di Sponge Bob vale di più di quella dei Dinosauri (boh..., ma non è sempre carta e non è sempre cioccolata?). Quindi gli occhi mi vanno alla pagina delle uova nelle scatole giganti corredate di bambole o pupazzi o macchinette a prezzi esorbitanti e mi viene da chiedermi cosa c'entra tutto questo con la Pasqua vera, quella che si festeggiava a casa mia quando eravamo bambini. La risposta già la conosco, ma sembra che non urti la sensibilità di nessuno. Un consumismo sfrenato e illogico importato da un paese privo di tradizioni che proprio per questo non può avere considerazione o rispetto di quelle che incontra, ma che anzi usa mirate strategie per cancellarle. Così accade che i nostri bambini anziché ricevere doni solamente il giorno dell'Epifania, com'era nella bella tradizione italiana che aveva assimilato antichi riti pagani e poi cristiani, se li aspettino anche sotto l'albero di Natale per una consuetudine che non ci appartiene ed ora anche la mattina di Pasqua. In questa ricorrenza, la principale festività del Cristianesimo in cui i credenti celebrano la risurrezione di Gesù il terzo giorno dopo la sua morte sulla croce, e che in casa mia era per noi bambini occasione per festeggiare tutti insieme con una colazione speciale con uova sode, magari colorate, pizza al formaggio e salame, immagino già lo squallore del momento-tipo: l'ennesimo scarto del pacco, l'entusiasmo di un secondo davanti al nuovo-per-un-istante-e-poi-già-accantonato giocattolo o gadget e infine il non senso di un discorso abbozzato a tavola e non concluso per l'immancabile richiamo della tv. Auguri.

lunedì 11 marzo 2013

E i politici twittano...

Io plaudo alla novità dell'informatica nella gestione della cosa pubblica anche se pubblica amministrazione, partiti politici, persone al governo, Rai e giornali sono tutti talmente in ritardo rispetto al privato che mi viene da sorridere se penso che io ho messo le mani sulla mia prima tastiera nel 1988. Era un sistema per videoscrittura della Rank Xerox, di quelli con i flopponi che memorizzavano un paio di file ciascuno. Allora adesso guardo, consentitemelo, con avvilimento a questo andirivieni di post e cinguettii tra un personaggio e l'altro, a questa corsa all'apparire il più possibile giovanili nella tecnologia, quando i retroscena delle differenti impalcature li conosciamo tutti e bene (per non parlare delle pose con i cagnolini...) e mi domando se questa classe di dirigenti ridicoli può ancora pensare di rappresentarci e continuare a trattarci da imbecilli. Un circolo di decrepiti che cambiano i nomi dei partiti, i simboli dei partiti, g...li slogan dei partiti, i mezzi di comunicazione dei partiti in base a come soffia il vento. La gente è stufa di sentir parlare di MSI, Democrazia Cristiana, Partito Socialista? Troppi scandali? Diamoci una ritoccatina. Un'impronta ecologica e via ecco che come per incanto ci troviamo tutti nel giardino dei partiti tra garofani, margherite, rami d'ulivo... Grillo insiste con la storia di PD-L? E allora richiamiamoci Forza Italia. E con la stessa superficialità e il medesimo opportunismo ritenete che sia possibile assorbire cambiamenti epocali nel giro di una settimana. Pensate davvero di essere credibili? Sono costernata. Un'intera nazione in mano a una manica di incapaci e inetti in questo momento tutti affannati a domandare a destra e a manca cos'è un post o un twit, a capire come funziona e a che serve. Intanto il nostro Paese frana su sé stesso e questa marmaglia non riesce nemmeno a concepire quanto tutto ciò potrà impattare anche sulle loro ormai labili certezze.

giovedì 3 gennaio 2013

"Qualcosa di futuribile"


Fonte: www.onewed.com



Ludovica infilò l'abito in crèpe di lana nera sui tacchi a spillo con decolleté, si rimirò allo specchio compiendo una rotazione su entrambi i fianchi accarezzandoseli con le mani e mentre si promuoveva con sguardo seducente cominciò a ripassare a mente le menzogne che avrebbe spacciato di lì a poco. A quelli abili a edificare a parole scenari luccicanti non sono mai sufficienti le bugie così, perfezionata la mise con ogni accessorio indispensabilmente griffato e ravviata la chioma folta, curatissima e bionda di balayage che incorniciava il trucco perfetto, serrò la porta e verso l'ascensore ancora procurava falsi argomenti, alcuni inverosimili quanto basta perché fossero ritenuti inconfutabili come era di moda. La moquette alta e soffice attutì il suono dei passi controllati fino all'ascensore e premere sul tasto di chiamata fu soprattutto pretesto per congratularsi con se stessa per la scelta dell'emerald come taglio del diamante che le gratificava sì, l'anulare destro, ma molto più la vanità, che è ciò che conta. Mentre scendeva, gli specchi del vano bordati in ottone lucido le rinnovarono la proposta di una silhouette slanciata e ben definita col contributo di dispendiose accuratezze, ma di ciò godette prima di altri il concierge che consapevole la attendeva di passaggio nell'androne al solito orario. Fuori, certamente il tempo era bello, assolutamente il sole splendeva dunque lei, completamente a suo agio, poté accomodarsi nel taxi con tutto il tempo che necessita a quello speciale movimento delle gambe snelle quando esibite in stile spot per collant e declamato l'indirizzo e controllata l'ora si attese un pronto, ma consono avvio della vettura verso la destinazione.

Tuo padre è là, il corpo è freddo, disteso sul piano dell'obitorio. Lo guardi con indifferenza, sei una macchina da guerra. Shh... non diciamo che non sei lì per lui, ma per accertarti che i portantini non gli sottraggano i suoi costosi effetti personali, giusta ricompensa per averlo tollerato così a lungo...

La copia del bilancio preventivo era sulla scrivania, ma non ne tenne alcun conto. Che le previsioni relative all'esercizio successivo fossero discrete lo aveva capito dai commenti dei colleghi con i quali intratteneva amene conversazioni al solo scopo di copiare un'opinione, incamerare dati e informazioni. Era l'unico modo per eventualmente argomentare alle riunioni del consiglio dal momento che non sapendo di conti patrimoniali ed economici, costi e ricavi, immobilizzazioni e risconti, non era certo in grado di interpretare un rendiconto. In effetti non possedeva le competenze per il ruolo assegnatole. Si trovava lì per essere stata segnalata al dirigente del dipartimento, ma non era questo ciò che contava. Contavano, in base alla scala dei suoi valori ed in quest'ordine esatto, l'entità degli emolumenti percepiti, la chance di muoversi in un entourage d'élite, la prospettiva ai suoi occhi sempre più verosimile di riuscire a sedurre un - collega benestante e residente nei quartieri alti cercasi - al quale accompagnarsi per un matrimonio rapido e di tutto rispetto.

Lo ameresti subito da morire e presto vorresti un figlio da lui. Shh... non riveliamo che l'ambizione prima è quella di salire quei gradini con ben strette in mano le chiavi del possesso; che assumeresti presto le movenze di certa signorilità che distingue e confina il volgo cui non dovrai mai appartenere e che per questo la tua interpretazione del personaggio sarebbe impeccabile...

Di frequente si incontrano uomini e donne dotati di quelle speciali abilità che consentono loro di conformare le circostanze agli scopi personali, ma in Ludo induceva e persuadeva il vero talento unito ad una fantasia sbrigliata, fucina di invenzioni così cospicue per numero e genere da necessitare periodicamente di smentite del precedentemente detto o fatto del quale avesse perduto memoria e che fosse in evidente contrasto con l'ultima versione fornita. Allo stesso modo con pronta destrezza lasciava che argomenti a lei sfavorevoli cadessero per il tramite di interposti banali enunciati. In una circostanza del genere si era trovata anche il giorno prima in occasione dell'inaugurazione del nuovo padiglione sperimentale alla quale aveva presenziato accanto al direttore del dipartimento, preferita tra le altre per la sua presenza così fortemente rappresentativa dell'orientamento dei nuovi programmi di sviluppo. Interrogata da un giornalista circa le evidenti evoluzioni nel settore, a quanto pare in controtendenza rispetto all'andamento del mercato di riferimento, era rimasta attonita per qualche istante non a cercare inutilmente di interpretare la domanda bensì a frugare nella sua mente tra le scorte di affermazioni devianti disponibili, alla ricerca della prima utile: "Si, in effetti è così tuttavia mi perdoni, devo lasciarla. Mi chiamano dall'ufficio di presidenza".  Si era quindi avviata al buffet incurante del sottile sarcasmo serpeggiante tra gli astanti. In una circostanza del genere non si glissa vantando le qualità dell'ultimo mascara acquistato di gran marca o dell'ambita borsa di monogrammatico concept. Si adotta un drastico diversivo tattico con effetto stupefacente/disarmante a basso ritorno reattivo. Lei lo sapeva bene. Ci aveva costruito sopra una carriera.

... e oggi ci mancava la riunione generale. Stasera c'è la cena con Olivia e il suo ospite, l'amico che partirà per Bruxelles tra pochi giorni. Sei curiosa di conoscerlo, certo, non si sa mai... Lei ti ha raccontato che è un po' sulle sue, ma educato ed elegante. Per colpa della discussione sul bilancio rischi di fare tardi. Shh... hai già pronta la scusa incredibile che ti farà uscire prima, in tempo per passare dall'estetista...

Il giorno precedente l'estetista si era preso cura di lei per tre ore, ma era valso a poco. Nel corso del party il solito giornalista - davvero inopportuno - l'aveva sorpresa alle spalle: "In quanto a capo dello staff tecnico del direttore Lei avrà certamente già valutato la fattibilità nel breve termine di alcuni tra i progetti elencati nel documento introduttivo. Può indicarcene uno o due tra quelli che ritiene i primi realizzabili?" - aveva domandato imperterrito e, al silenzio imbarazzato, con lei voltatasi con languide, ma infruttuose movenze da sirena, fissandola ironico negli occhi lui aveva incalzato: "Insomma, riesce a dirci qualcosa di futuribile?" - "Basterebbe anche solo qualcosa", aveva soggiunto tra sé e sé.

Nella Roma "a macchia di leopardo" - così piace definire a molti immobiliaristi la varia  intersecazione tra zone di estrazione sociale diversa - quella sera Ludovica, lasciando il suo appartamento per andare a cena al ristorante, si mosse come ovvio tra due quartieri nuance del medesimo elegante colore. Tra luci e voci soffuse varcò l'ingresso in tailleur crêpe de chine champagne avvolta da una stola in cachemire nero trattenuta dal palmo della mano destra sul cuore con l'emerald bene in vista. Ringraziato il maître per le indicazioni fornitele e irritata per il ticchettio dei suoi propri tacchi sul parquet in rovere antico udibile nonostante gli sforzi nell'andatura per contenerlo, si diresse con contegno al tavolo in cui l'amica Olivia la attendeva insieme al suo ospite. Si inorgoglì per l'impeccabile mise en place in cui porcellana, cristalli e argento spiccavano sul lino candido mai svilito da distinte di conto lì sempre recapitate nell'apposita tasca in pelle che regolarmente accoglieva dorate carte di credito. Mentre ai tavoli vicini orecchie indiscrete avrebbero compreso considerazioni su ritorni di investimento in banche d'oltralpe e attraverso le vetrate sguardi annoiati potevano soffermarsi sul posteggio esterno dove sostavano vetture che popolano i sogni di molti coronando però - come è naturale che sia - soltanto quelli di pochi, badando bene a non appoggiare mai i gomiti sul piano, si mise a disposizione per una conversazione rilassata, conciliante e, per quanto le sarebbe stato possibile, brillante.

Le roselline di sfoglie trasparenti di bacon saltato in aceto balsamico furono il preambolo alla cena. Amabilmente innescata dai futili temi che resistono al veto del bon ton, dopo una brevissima presentazione la chiacchierata procedeva easily, non disdegnando di sostare di tanto in tanto su dettagli di certo interesse trattati obbligatoriamente sottovoce: la volta in cui Max e Molly avevano bisticciato in vacanza sul caicco, il seno rifatto - male - di Costanza, il lifting riuscito - peggio - di Vittoria Maria. Per quel criterio che suggerisce di riportare sempre le confidenze altrui guardandosi bene dal rivelare le proprie, al risotto allo champagne erano quindi stati tutti serviti, convenuti alla cena ed assenti. Vittorio aveva seguito quello sciorinare di faccende private con curiosità non nei riguardi dei malcapitati bensì delle due donne. A lungo e in silenzio ne aveva osservato gli atteggiamenti e la gestualità, soprattutto l'ostentazione del movimento delle labbra ben serrate e prominenti alle prese col boccone e l'insistenza nel recupero degli ultimi chicchi di riso dal piatto che tradiva una certa ingordigia volendo interpretabile anche come avidità. Non era mancato l'indispensabile preambolo giustificativo incipit di ciascun pettegolezzo, "tu sai quanto sono affezionata a Costanza, però..." e giù con le chiacchiere. 

Arrivò quindi il suo momento. "E così ti trovi a Roma per qualche giorno" - chiese Ludovica molto forbitamente. "Si, ho preso alcuni giorni di vacanza poi dovrò tornare a Bruxelles" - rispose Vittorio. "Hai già qualche impegno per il tempo libero?" - domandò Olivia. "No, ho preferito non fare programmi. Un mio amico giornalista free-lance sta preparando alcuni articoli sull'expo della Pubblica Amministrazione. Mi ha chiesto di aiutarlo a trascrivere le interviste". "Bè, deve trattarsi di un lavoro molto interessante" - intervenne di nuovo Ludovica. "Insomma, dipende, spesso è noioso. Ieri abbiamo trascorso il pomeriggio a curare la stesura degli articoli. Tutte cose piuttosto tecniche. La sera invece ci siamo divertiti, abbiamo riso tutto il tempo mentre mi raccontava dell'intervista a una tizia del dipartimento del sociale. La classica oca imboscata a capo dello staff del direttore. Si capiva che non aveva la più pallida idea di cosa ci fosse scritto nella relazione introduttiva. Si è divertito a perseguitarla per tutto il tempo...".

Il cameriere serviva uno splendido muffin al cacao con cuore di cioccolato fuso spolverato di zucchero a velo. E già. "Insomma, riesce a dirci qualcosa di futuribile?". A Ludovica, per alcuni istanti pietrificata con i rebbi della forchetta ancora tra le labbra, balenò in mente quando di nuovo alla ricerca di una deviazione di scorta alla fine aveva abbassato  lo sguardo. Nella mente, di religiosa matrice innumerevoli volte mandata a memoria per le compite suore presso le quali aveva studiato, era riuscito a passarle soltanto un elenco:

Shh... li ricordi, i sette vizi capitali? Accidia, avarizia, gola, ira, lussuria, invidia, superbia...

ma subito era stato ricacciato nell'oblio.


mercoledì 19 dicembre 2012

"Cenere sul cuore"


Fonte: Gabriele Basilico - 2008.fotografiafestival.it


Questo racconto prende spunto da una storia di cronaca realmente accaduta.


Aveva percorso tutta la strada sovrappensiero. Da diverso tempo ormai era così. Usciva di casa la mattina presto mentre la moglie e i suoi due bambini dormivano, serrava la porta accompagnandola con attenzione perché facesse il minimo rumore dopodiché si avviava nel silenzio dei vicoli del centro come un automa guidato ad ogni svolta, semaforo, attraversamento e finalmente lungo il viale che costeggiava il fiume. Lo percorreva a passi regolari tra i mucchi di foglie cadute sul marciapiede dai platani intercalati con una cadenza esasperante che scandiva la distanza residua dal punto di arrivo, l'ingresso del carcere. Non essendo possibile un percorso alternativo era obbligato a rivivere istante per istante quello che era successo mesi prima, i primi giorni dopo l'accaduto con una intensità emotiva intollerabile che lo aveva obbligato ad assentarsi dal lavoro con l'unico scopo di evitare di ripercorrere quel calvario. I superiori avevano compreso e avallato la richiesta. Al rientro, i colleghi, i capi servizio e perfino i reclusi, soprattutto i veterani, avevano notato subito il cambiamento. Mario, guardia carceraria addetta al secondo braccio e mattatore della compagnia, aveva irrimediabilmente perso il gusto dello sfottò e la sua verve comica. Si era sparsa la voce e da subito più nessuno gli aveva chiesto di raccontare storielle, lui che ne aveva una sempre pronta all'occorrenza. Arrivava, si cambiava, iniziava a svolgere le mansioni del suo turno con diligenza e ora con una diversa predisposizione rispetto al passato. Dietro le sbarre ritrovava uomini, persone - non più soltanto volti, consuetudini e gesti - e restituiva compassione piuttosto che pietà. Per lungo tempo, come per il fuoco se la cenere prevale sulle braci, in base a quel meccanismo intimo che ci protegge quando la vita obbliga quotidianamente a conoscere le sventure degli altri, anche lui aveva soffocato quella naturale tendenza dell'uomo buono ad esservi partecipe. Mario trovava invece adesso una buona parola per ciascuno di quegli sguardi che recavano per lui un significato nuovo e dimostrava una diversa comprensione per le vicende personali le cui narrazioni gli venivano ora offerte dai detenuti con la spontaneità che premia il confidente attendibile meritevole di fiducia. Era così per tutti salvo uno e davanti a quella cella passava con disagio, insofferenza, ad occhi bassi, sempre con fare frettoloso e solo per dovere. Ad ogni sosta davanti a quelle sbarre nell'anima bruciava una ferita profonda impossibile da rimarginare perché rinnovata ogni notte dallo stesso incubo ricorrente: mani che si sfiorano, che arrivano a toccarsi, una presa troppo tardiva e perciò irrimediabilmente mancata, occhi ingenui che implorano smarriti, occhi che non riescono a capire, che non possono capire perché hanno visto così poco, occhi che non avranno il tempo di meravigliarsi di essere stati traditi.

Dopo il controllo dei permessi le guardie all'ingresso avevano avuto disposizione di sistemare nella rotonda i coristi in balìa dell’abituale smarrimento iniziale, di quel disagio che deriva a chi non conosce il carcere dal sentirsi esposti con troppa prossimità a una forza invisibile, ma viva e vigile, nutrita a malvagità e cattiveria, trattenuta e proprio per questo maggiormente potenziale in crudeltà, spietatezza, atrocità. Come per un innato senso di salvaguardia il gruppo, pur nel rispetto della disposizione ottimale delle voci, si era compattato e attendeva ansioso il cenno della direttrice. Le prime timide note dell'Adeste Fideles, il brano che inaugurava quel piccolo concerto offerto per il Natale, dal cortile centrale interno - la base del cilindro ideale in cui si trovava il coro - erano pervenute agli affacci dei piani superiori e da lì più convincenti erano fluite attraverso i corridoi laterali. Dopo poco tra gli autorizzati qualche detenuto curioso si era sporto dalle ringhiere; a metà brano in molti non più scettici guardavano in giù in ascolto rispettoso e alla fine tutti avevano ricambiato con un applauso caldo quell'attenzione inaspettata. L'ansia degli ospiti si era così disciolta in un ampio afflato liberatorio che aveva conferito propulsione, brillantezza e umanità alle voci, in un abbraccio ideale tra buoni in basso e cattivi in alto, come per una inedita sovversione in terra di quei canoni che pare governino le azioni in cielo.

Al termine dell'esecuzione le guardie avevano ricondotto alle celle i detenuti quieti e raramente altrettanto disponibili a rientrare senza borbottii. Nel secondo braccio Mario, apprestatosi a chiudere, si era reso conto che lui, non autorizzato ad uscire perché in stato di fermo e guardato a vista, per tutto il tempo era rimasto sdraiato sul letto lungo un fianco, il viso rivolto alla parete. Il compagno rientrato in cella gli aveva lanciato un'occhiata e un commento a mezza bocca sufficiente perché lui si alzasse e gli si avventasse contro. Mario, mentre i colleghi intervenivano, nel frattempo si era frapposto ai due allontanando con le braccia tese a sinistra l'uno e a destra l'altro - lui - fissandolo negli occhi per la prima volta da quel giorno.

Quante volte Mario aveva ripensato a quella mattina, alle coincidenze che lo avevano attirato verso quell’incontro, a quel padre impazzito che per ripicca aveva rapito e teneva in braccio il figlioletto infreddolito per la neve e spaventato, piangente mentre invocava il soccorso della nonna che li seguiva disperata. Quante volte Mario si era rimproverato la mancanza di prontezza, di intuizione, di capacità di persuasione. Infinite volte nei sogni aveva tentato invano di afferrare quelle manine protese oppure era precipitato insieme al bimbo lanciato giù dal ponte da lui, il padre. Disperato, per lungo tempo non aveva potuto guardare negli occhi i suoi bambini nutrendo allo stesso momento un senso di colpa per averli, loro, ancora vivi e non essere invece stato in grado di salvare lui, il piccolo, verso il quale andava maturando giorno dopo giorno un sentimento inaspettato di amore paterno.

Che fosse possibile un’afflizione più profonda, che lui ne soffrisse costantemente, questo Mario attese di leggere in quello sguardo. Un sollievo al peso intollerabile del ricordo. A rivelarglisi fu invece il vuoto, il nulla. Mario abbassò le braccia, affidò l’uomo ai colleghi, si allontanò dalla cella maledicendolo per avergli rovinato la vita per sempre.




mercoledì 12 dicembre 2012

"Più Libri Più Liberi"


8 Dicembre 2012
Alla Fiera "Più Libri Più Liberi"
Stand della Casa Editrice Nottetempo
Palazzo dei Congressi, Roma Eur

domenica 25 novembre 2012

"Sorelle"

Sedute allo stesso banco, riprese di fronte, lei siede alla mia sinistra e io le cingo le spalle col mio braccio. Indossiamo i grembiuli blu che ci ha cucito nonna, col colletto e il fioccone bianco. Io quarta elementare, lei terza. Portiamo entrambe i capelli lunghi ordinatamente raccolti in una coda. Il mio sguardo verso l’obbiettivo ha la solita espressione della “mammina” (sono una bambina abituata a prendersi cura della sorella minore), il suo invece ha quel guizzo sbarazzino e furbetto che purtroppo perderà negli anni. Il fotografo ci suggerisce di puntare l’indice sul libro davanti a noi ed io noto che la sua mano è piccola, fragile e le dita ancora un po’ tozze, con le unghie corte perché le rosicchia. Questo particolare mi fa provare una grande tenerezza per lei e, più che il resto, guardando la fotografia è il ricordo di questo particolare che ancora mi commuove a distanza di trent’anni.
“Sarebbe un’allieva migliore se ascoltasse le spiegazioni, invece mi zittisce ogni volta dicendo si, si, basta, ho capito, non c’è bisogno di ripetermelo, ho capito…” sta spiegando sorridendo scherzoso Maurizio, l’attuale compagno di mia sorella, mentre siamo tutti a tavola per il pranzo di Pasquetta. Si parla del mare, delle lezioni di vela e della testardaggine di Gloria. “Ma dai?” replico ironicamente, perché io lo conosco bene il problema. La sua presunzione di sapere già tutto. Oggi però mentre lui parla sto riflettendo sulle sue parole spostando l’osservazione su un piano prospettico più onesto. Infanzia e adolescenza passate a sentirsi “la sorella di”. Io l’ho sempre preceduta a scuola e al lavoro con risultati eccellenti e lei a subire il confronto continuo. Davvero però non ci ho mai badato anzi, piuttosto io ho sempre provato un pizzico di invidia per Gloria, intelligente quanto me, ma di gran lunga più attraente, sempre corteggiata, più furba. Un grande senso pratico, i piedi ben saldi a terra, è bella, elegante, determinata, non perde mai tempo. Rapida, concreta, curiosa, è amante della vita notturna e delle feste, magnifica ballerina. Io invece se fossi un disegno sembrerei una pigotta non particolarmente graziosa né aggraziata, appesa al filo di un palloncino gonfiato con i piedi che ciondolano a mezzo metro da terra: una sognatrice che con gran fatica impegna nelle incombenze quotidiane il poco senso pratico che le appartiene, tutto il resto è un gran poltrire, rimandare, giustificare e infine considerare che non-vale-la-pena-di.
“Gloria era un amore… ma Lara era bravissima a scuola” – sta ricordando nostra madre mentre al finale del pasto assaggiamo la crostata. Io mi sono sempre ben guardata dal rivelare invece la mollezza che mi infiacchisce e ho vissuto per anni con la convinzione di aver giocato sporco perché restare nella pole position della considerazione e degli affetti familiari grazie ai risultati scolastici non mi è mai costato più di tanto. Mentre gli altri continuano a chiacchierare muovo istintivamente lo sguardo alla mia gamba sinistra, là dove sottopelle è ancora visibile il segno nero della mina. Mi torna in mente l’episodio della sua pugnalata alla mia coscia con la matita appuntita e poi naturalmente quello del lancio delle forbici scagliate all’altezza dei miei occhi. Capace anche di momenti di imprevedibile e irrefrenabile crudeltà, mia sorella deve avermi odiato sul serio da ragazza.
Gloria ha avuto diverse storie personali. Un marito con divorzio, un compagno con una figlia e separazione, alcuni altri flirt con uomini più giovani, di pari età, senza figli o con figli. Credo per un bisogno estremo di appoggiarsi ad un fulcro o forse per il terrore di leggersi dentro una profonda solitudine. Ecco perché quando mi ha presentato Maurizio, separato con un figlio, mite, accomodante, educato, colto, ne ho avuto l’impressione che stavolta fosse quello giusto e ho tifato sinceramente per lei, perché davvero le voglio bene e mi piacerebbe vederla serena e questo nonostante non ci sentiamo quasi mai, non ci frequentiamo e ci riserviamo toni piuttosto asettici nelle conversazioni telefoniche, quasi sempre comunicazioni di servizio, evitando di rivelarci reciproche confidenze.
Così oggi mi ha sorpreso che mi abbia chiesto di andare a trovarla. È trascorsa una settimana dal pranzo di Pasquetta, siamo sedute nel tinello. In pochi minuti di un tempo sospeso e dilatato durante il quale la rivedo piccola mentre muove le mani con gesti infantili e perciò, se lei me lo consentisse, le cingerei di nuovo le spalle col mio braccio per proteggerla dal mondo, mi ha raccontato di come lei e Maurizio si sono lasciati, così, apparentemente all’improvviso, in realtà dopo un periodo di maretta passato a cercare di chiarirsi. Lui chiedendole tempo, lei rispondendogli che no, non crede nel tempo che cambia le cose, che se ha avuto un ripensamento è perché è probabile che voglia riprendere la storia con sua moglie. Mi parla sconfortata, ma composta, rassegnata e mentre la ascolto e mi dispiaccio sinceramente per lei mi tornano in mente le mie parole a tavola quel giorno quando i miei familiari, critici verso mio marito assente anche in quell’occasione, avevano chiesto come mi andasse con lui visto che il nostro rapporto era stato burrascoso nelle settimane precedenti. Avevo risposto che “… certo, è vero, io gli ho dato molto, ma anche lui ha dato molto a me. Sono cose che sappiamo io e lui. Siamo insieme da vent’anni; prima di mandare tutto all’aria voglio essere sicura di aver tentato ogni strada possibile… e poi… abbiamo una figlia, una ragazza che adora entrambi. Non voglio che soffra inutilmente…”. Maurizio, seduto accanto a Gloria, riflessivo, lo sguardo abbassato e il viso serio, aveva commentato che si, non poteva non darmi ragione, riteneva che il mio fosse un discorso molto equilibrato.
Improvvisamente mi sento male. Riavverto quella fastidiosa sensazione da “prima della classe”. Realizzo che forse stavolta l’ho combinata grossa davvero. Ormai siamo adulte, ma d’istinto lo sguardo vaga in giro per sincerarsi che non ci sia da qualche parte a portata di mano un’altra matita appuntita, non si sa mai. Ma che vado a pensare… e comunque no, sul piano della credenza – la ammiro anche perché è una brava cuoca – mia sorella tiene alcuni utensili da cucina: una bilancia, un robot, un ceppo con i coltelli da chef.


Questo racconto ha partecipato al concorso Racconti nella Rete 2013:
http://www.raccontinellarete.it/?p=11751

lunedì 12 novembre 2012

"Orlando"

Oggi è una giornata moscia. Ho sentito freddo tutta la notte nonostante abbia dormito rannicchiata addosso a tuo padre. Non ce l’ho fatta ad alzarmi subito così vi ho ascoltati mentre in bagno discutevate dopo esservi fatti la doccia. Sporchi sempre lo specchio appannato. Ci siamo salutati a voce da una stanza all’altra perché doveva accompagnarti a scuola ed eravate in ritardo. Così adesso sono sola in casa e mi sposto indolente tra il soggiorno, la camera e la cucina in cerca di ispirazione per affrontare la giornata. Non migliora e mi obbligo ad entrare anch’io nella doccia, comunque devo andare al lavoro. Tutto mi fa fatica: insaponarmi, fare lo shampoo, sciacquarmi e con lo stesso spirito collego il phon alla presa e comincio ad asciugare i capelli. Allora me ne accorgo. Prima che l’aria asciutta dalla finestra aperta lo spazzi via lo catturo con lo sguardo, lo faccio mio, lo spingo in fondo al cuore. È il faccino sorridente che stamattina hai disegnato con l’indice. Sotto c’è la tua firma: ORL AN DO. Mi sento meglio ora. Dirò a tuo padre di non sgridarti più. Voglio che sporchi lo specchio tutti i giorni.

martedì 6 novembre 2012

Articolo su "Il Pungolo" di luglio 2012

http://www.ilpungolo.org/2012/07/14/la-storta-scrittrice-vince-concorso-racconti-in-rete/

"Rosso di sera"

Fonte: www.iloveroma.it



M’hanno svegliato in piena notte tre scoppi nella strada e ho capito subito che succedeva. Dalla finestra della stanza da letto riverberava una luce rossa. Adesso sono sul balcone per vedere a chi sia toccato stavolta, ma non mi sporgo, per precauzioni diverse. Una ragazza, due scale accanto e un piano più su, sta gridando affacciata: “Disgraziati! Nòva nòva… Appena comprata…”. Piange mentre guarda sconsolata la sua macchina che brucia. È scoppiato anche il quarto pneumatico. Adesso toccherà all’abitacolo. Fino a cinque minuti fa la via era deserta, ora è sotto gli occhi di tutto il vicinato che assiste impotente al rogo. Nel palazzo di fronte un tizio si sbraccia e urla di spostare le macchine parcheggiate ai lati. Per esperienza sappiamo tutti che le fiamme presto arriveranno al serbatoio. Intanto la colonna di fuoco raggiunge il terzo piano e sfiora le tapparelle delle finestre. Quella del fumo, con la sua puzza di zampirone, prosegue oltre la cima del palazzo, altri quattro piani sopra. Sicuramente la vedranno anche dall’altra parte del quartiere, d’altronde è l’effetto voluto. Decido che posso rimettermi a letto: la mia, di macchina, è già andata tempo fa eppoi in lontananza si sente l’eco della sirena dei pompieri che ormai conoscono bene la strada.

Laurentino 38 è un plastico essenziale in scala reale con poche figure umane in 3D a rappresentare la vita lungo gli stradoni, sotto i palazzi, nei campi da calcio, nelle piste da pattinaggio e nei parchi giochi ormai ridotti al minimo, tristi monumenti alle buone intenzioni. Un vuoto di tempo sospeso tra i campi dell’Eur a ridosso del Raccordo Anulare. Una leccata di vernice marrone-tristezza-perenne alternata al crema-sapore-acido per le torri e una di vernice grigio-nessuno per gli spazi comuni non riempiono i pori delle pareti erette con lastroni di cemento armato incastrati quasi per appoggio come si fa con i castelli di carte. Non si è nemmeno perso tempo a tamponare i vari interstizi: chi vive qui deve ricordare da dove viene e dove potrà andare/restare.

Perché questo posto sia il casino che è non mi ci è voluto molto a capirlo. Io qui ci sono arrivato quando i palazzi erano abitati da poco. I miei avevano fatto domanda per una casa e diciamo che ci è stato dato un tetto, un appartamento tra i condomìni del famigerato “nono ponte” - all’epoca persino sede del commissariato di polizia locale - proprio tra tutti il ponte preferito di notte da prostitute e drogati. Siccome i poliziotti furono rispediti al centro dell’Eur tra l’ambivalente soddisfazione generale, zingari e cavalli tornarono negli appartamenti, gli ex baraccati continuarono a coltivare orti sulle terrazze, non si contarono più le scorribande notturne e gli scontri tra balordi per stabilire le nuove gerarchie con tanto di sparatorie lungo i viali.

I viali: Gadda, Silone, Marinetti, di certo si sono rivoltati nelle tombe ogni notte tanto era sconcertante lo squallore al quale erano stati assegnati. Io, poi, abito in Via Baudelaire:

- “Come si scrive, mi scusi?”
- “Ba-u-de-la-i-re (quello de I fiori del male…)
- “Ah… si. Ecco qui. Spedisca il modulo. Ci vorranno almeno un paio di settimane…”
- “Grazie”.

<<A detta dello stesso Baudelaire l’opera va intesa come un viaggio immaginario che il poeta compie verso l’inferno che  è la vita>>.


 “Allora ecco il nesso con la strada di casa mia…” ho realizzato oggi dopo aver letto un paragrafetto su una rivista di quartiere mentre attendevo seduto su una panca il mio turno all’ufficio informazioni del municipio. Ecco, così mi spiego come mai proprio nella mia scala abiti un’intera famiglia di malviventi distribuita in diversi appartamenti. In uno, l’appartamento davanti al nostro, ci vive la pazza.

La pazza è mal sopportata da tutta la sua famiglia perché “pianta grane”. Percepisce la pensione d’invalidità e ogni tanto deve dare dimostrazione di meritarla così una sera sferra un paio di colpi con un cacciavite alla nostra porta d’ingresso, versa alcool nel buco che si è formato e tenta di accendere il fuoco. I miei se ne accorgono e mi chiamano al telefono urlando terrorizzati di andare di corsa a casa. Arrivo salendo le scale a tre a tre con un infarto in atto e dopo un po’ sul pianerottolo mi trovo ad affrontare anche la furia di quell’invasato del fratello, sceso dal piano di sopra a vedere come mai sto litigando con la sorella. Lo conosco bene. È uno degli ultimi balordi della famiglia rimasti dopo l’autodecimazione dei congiunti a base di pistole e droga. Preferisco fare pippa e scusarmi con lui per essermi alterato. Si tranquillizza e se ne va e penso che sia finita lì. Dopo qualche settimana mi brucia lo stesso la macchina. Questione di immagine.

È passato un po’ di tempo da quella volta. La pazza è ancora tra noi. Ieri pomeriggio l’ho notata alla fermata dell’autobus sotto il sole cocente di agosto, solo lei in un silenzio surreale, la "pensatrice" del quartiere seduta immobile a lato del viale deserto sotto gli occhi di decine di finestre boccheggianti delle alte palazzine di cemento crudo (qui per isolamento non si intende coibentazione) che torreggiano tutt'intorno. Ancora più ingrassata per via dei calmanti e nera come al solito, anche se da un po’ di tempo più gentile. Anche gli altri in effetti si potrebbero ormai ritenere cordiali vicini; contribuiamo persino con loro alle spese di gestione del condominio. È che soprattutto non vogliamo scontentare il caposcala, il famoso fratello, che si è incaricato senza votazione e due mesi fa ha annunciato con breve comunicato scritto apposto a lato dell’ascensore che si occuperà lui dei vari lavori necessari:

“LA COPIA DELE CHIAVI DEL CANCIELLO
CELL’A’ IL CAPOSCALA INTERNO 7”.

D’altro canto l’ente si rifiuta di fare manutenzione da quando lui per l’ennesima volta ha incendiato il garage. Ad ogni modo il cambiamento si vede già. L’androne, con le mattonelle da bagno color sorcio scelte a gusto suo e applicate fino a dove ha avuto il tempo di arrivare, ha tutto un altro aspetto ora anche se - ciangottava ieri un'inquilina mentre trasparente mi defilavo in fretta dal portone - "pure noi volevamo la greca come l'altra scala invece delle bacchette d'alluminio". Questione di economia.

Laurentino 38 oggi è un quartiere che cambia. Così pare sostenesse ieri il parterre de rois all’inaugurazione del nuovo centro culturale. Me l’ha raccontato il dipendente del municipio. Un avvenimento importante e sono state invitate le autorità. Per l’occasione è stato finalmente demolito il nostro ponte, perché sarebbe stato visibile dal centro culturale e anche perché era il più rovinato di tutti. Le terrazze davanti ai negozi erano continuamente allagate dagli occupanti e l’acqua ricadeva a pioggia sulle macchine e i passanti che attraversavano la strada di sotto. Gli sfollati non sapevano dove stare, lo capisco, ma era troppo un casino e così c'ha rimesso pure Armando e, questo si, mi è dispiaciuto di più. È stato sfrattato dalla rotonda dove passava tutto il giorno seduto all’ombra dei pini e della baracchetta costruita con l’ondulina e con qualche porta vecchia abbandonata lì vicino. La ruspa comunale è passata sdegnata sulle sue dotazioni di confort e ha ripristinato soddisfatta il necessario decoro, come se lo squallore dei "ponti" fosse tutto lì. Armando adesso non viene più. Quelli che coltivano gli orti ai lati della marrana l’hanno visto che vagava con lo sguardo un po’ perso nei dintorni. In attesa e nella speranza che ritorni, là dove sedeva sempre gli hanno messo una poltroncina di quelle da giardino, di plastica bianca, ma ingrigita dalla pioggia.

Si, forse questo quartiere cambierà e un giorno non sarà più un dormitorio per umanità rassegnata. Rigiro tra le dita la ricevuta del fax, ho appena spedito il modulo. Nell’indifferenza generale ho comunicato il cambio di residenza e me ne vado.




Racconto Premio 2° Concorso Letterario
del Comune di Campagnano di Roma,  giugno 2013
2° classificato
Di seguito il link al sito per partecipare al concorso Racconti nella Rete 2013
 
 

"Problemi di manutenzione ordinaria"

Fonte: www.flickr.com


Il 46 fermava davanti alla Chiesa Nuova. Scesa dall’autobus attraversavo Corso Vittorio e imboccavo Vicolo Sforza Cesarini. Se non c’era zia Elia da salutare proseguivo per Piazza dell’Orologio e da lì, passando per Via degli Orsini, di fronte a Palazzo Taverna svoltavo a destra per Via di Monte Giordano. A quel punto acceleravo il passo perché mancava pochissimo all’arrivo. Ad ogni civico una bottega. Il fabbro mi riconosceva per primo: “A piccolé… ‘ndo’ vai? Da papà? Ce sta, ce sta, senti come canta…”. Che fosse “Un dì all’azzurro spazio” oppure “Nessun dorma” o quello che gli andasse in quel momento, prendeva corpo dall’interno del palazzo di fronte alla salita del Montonaccio e risuonava fino a Piazza del Fico. Non potevi non essere orgogliosa di cotanto genitore. Finalmente arrivavo quasi di corsa al negozio, lui lo chiamava “il laboratorio”, e mi precipitavo a salutarlo e abbracciarlo forte. Qualche volta mi toccava aspettare l’acuto finale: “L’ho provato e riprovato tutto il giorno. Senti come fa…” mi sussurrava.
Mio padre era la colonna portante della mia vita. Una colonna dorica, però. Non amava i fronzoli. Nella sua tomba mia madre ha deposto un ramo di albero di fico, un tralcio di vite e un pezzo di legno. Era un ebanista raffinato, ricercato da antiquari, architetti e privati facoltosi, ma si divertiva a presentarsi: “Piacere, Vittorio. Faccio il falegname povero”. Io ero la prima dei suoi quattro pinocchi. Forse la più amata. Probabilmente la preferita. Credo perché, a differenza degli altri che lo hanno fatto molto prima di me, io ho trovato la forza di allontanarmi da lui soltanto quando ho saputo di aspettare un figlio. Avevo quarant’anni, ero sempre vissuta in casa con i miei genitori e da sette anni assistevo sconsolata al suo declino a causa dell’Alzheimer.
I portelloni delle finestre cedono uno dopo l’altro. Le cerniere arrugginiscono, cominciano a forzare, poi si bloccano e al primo colpo di vento, in genere alle raffiche di settembre quando le prime piogge raffrescano l’ultimo caldo estivo, le imposte precipitano a terra con un tonfo sordo. Naturalmente prima c’era mio padre che se ne occupava. Adesso preghiamo nostro fratello, tra i legittimi l’erede supposto più spirituale mentre non potrebbe essergli più diverso, di soccorrere la casa di famiglia nei suoi infiniti acciacchi.
Io per la mia invece ho trovato Giovanni. È un tuttofare di mezza età, di buona volontà, mattiniero, organizzato, lesto. Arriva presto e finisce tardi. E nel frattempo fa un mucchio di cose. Certo, non perfette come mio padre – il confronto non lo potrebbe reggere nessuno – ma senz’altro discrete. Ad osservarlo bene, un po’ me lo ricorda. Stesso fisico asciutto, quell’approccio sorridente al lavoro, con la battuta pronta. E poi canticchia mentre impasta o sega o incolla. Apprezza qualsiasi piatto prepari a pranzo e per questo lo invito volentieri a mangiare con noi. Mi da soddisfazione, proprio come faceva mio padre quando da ragazza sperimentavo in cucina e scherza volentieri col mio Orlando che oggi compie cinque anni.
Se non fosse per il fatto che mi sforzo di non essere credente in generale, potrei pensare che lo spirito di Vittorio-il-falegname-povero si sia calato nel corpo di Giovanni. Siccome non ci riesco, a non essere credente, allora mi ritrovo a immaginare almeno che mio padre da lassù abbia fatto in modo di farmi incontrare un suo alter-ego, uno che mi aiuti a risolvere quelli che sono ormai anche per me angoscianti problemi di manutenzione ordinaria. Continuo a scrutarlo da dietro la finestra, lui mi da le spalle, la maglietta sudata sotto il sole, va avanti e indietro per il giardino.
Non può accorgersi che sto piangendo.

"Ancora una volta"

Sì, potrei gridarti quello che mi gonfia il cuore, che vorrebbe esplodermi dal petto, che mi sale alla testa come uno sfogo che incontri un tappo, che m’intossica l’anima felice ormai anche di soli brevissimi istanti di colore, che impegna la mia mente anche quando non sono vigile e la obbliga al medesimo infinitamente ripetuto itinerario; quello che non reputo aver meritato per pensieri, parole, opere e omissioni, appunti sul nostro passato opaco, il presente inafferrabile e il futuro che non ho elementi per ipotizzare.

Sì, potrei significarti di quale massa solida pesano i tuoi silenzi al pari dei tuoi più onerosi insulti e darti prove di mancare di uno spirito altrettanto possente del mio, dal quale traggo forza se non per rialzarmi almeno per non soccombere, immobile, carponi, lo sguardo ostinato perché aver scelto male è già abbastanza.

Sì, potrei fondere il tuo magma consolidato e incandescente con una nuvola del mio vapore di purezza acquea e lasciarti lì, braccia e spalle ciondolanti, lo sguardo incredulo, Golia senza nerbo, “prova a parlare ancora adesso, riflesso solitario su un cristallo qualsiasi…”.

Sì, potrei ridurti alla stessa ragione di sempre, troppo invocata, provata, elusa per avere ancora un senso e un’utilità, materia plasmata da entrambi per il reciproco miserabile vantaggio, regola di un gioco sleale cui ho dovuto prestarmi per riuscire a ricondurti ogni volta a un più equo metro di giudizio.

Sì, potrei alzare al massimo il volume delle parole delle pagine alle quali mi hai negato da troppo tempo e stordirti di emozioni, immagini, sensi e significanti senza degnarti di un commento, lasciato a terra lì, ubriaco di un alcolico che non apprezzi.

Sì, potrei… indurre il tuo ego a morte certa mostrandoti che amo anche senza di te, che mi sono riamata nonostante te; potrei rammentarti con un sorriso di scherno il tuo esiguo valore nominale o farti credere ancora un dio, “per me farebbe lo stesso…”.

Invece si voltò dall’altra parte, rimboccò per bene le coperte sulle spalle e lasciò che il sonno, ancora una volta, come ormai da troppe sere, finalmente si prendesse cura di lei.




Racconto vincitore concorso "Racconti nella Rete" edizione 2012
nell'ambito della Rassegna Luccautori
inserito nell'omonima antologia edita da Nottetempo

Al racconto è stata abbinata l'opera appositamente realizzata da Lido Contemori. Di seguito il link con l'intervista all'artista:
http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=-TAq0-iHAi0#!






3° da sinistra, l'opera di Lido Contemori abbinata al racconto, esposta a Villa Bottini durante la manifestazione Luccautori 2012