domenica 25 novembre 2012

"Sorelle"

Sedute allo stesso banco, riprese di fronte, lei siede alla mia sinistra e io le cingo le spalle col mio braccio. Indossiamo i grembiuli blu che ci ha cucito nonna, col colletto e il fioccone bianco. Io quarta elementare, lei terza. Portiamo entrambe i capelli lunghi ordinatamente raccolti in una coda. Il mio sguardo verso l’obbiettivo ha la solita espressione della “mammina” (sono una bambina abituata a prendersi cura della sorella minore), il suo invece ha quel guizzo sbarazzino e furbetto che purtroppo perderà negli anni. Il fotografo ci suggerisce di puntare l’indice sul libro davanti a noi ed io noto che la sua mano è piccola, fragile e le dita ancora un po’ tozze, con le unghie corte perché le rosicchia. Questo particolare mi fa provare una grande tenerezza per lei e, più che il resto, guardando la fotografia è il ricordo di questo particolare che ancora mi commuove a distanza di trent’anni.
“Sarebbe un’allieva migliore se ascoltasse le spiegazioni, invece mi zittisce ogni volta dicendo si, si, basta, ho capito, non c’è bisogno di ripetermelo, ho capito…” sta spiegando sorridendo scherzoso Maurizio, l’attuale compagno di mia sorella, mentre siamo tutti a tavola per il pranzo di Pasquetta. Si parla del mare, delle lezioni di vela e della testardaggine di Gloria. “Ma dai?” replico ironicamente, perché io lo conosco bene il problema. La sua presunzione di sapere già tutto. Oggi però mentre lui parla sto riflettendo sulle sue parole spostando l’osservazione su un piano prospettico più onesto. Infanzia e adolescenza passate a sentirsi “la sorella di”. Io l’ho sempre preceduta a scuola e al lavoro con risultati eccellenti e lei a subire il confronto continuo. Davvero però non ci ho mai badato anzi, piuttosto io ho sempre provato un pizzico di invidia per Gloria, intelligente quanto me, ma di gran lunga più attraente, sempre corteggiata, più furba. Un grande senso pratico, i piedi ben saldi a terra, è bella, elegante, determinata, non perde mai tempo. Rapida, concreta, curiosa, è amante della vita notturna e delle feste, magnifica ballerina. Io invece se fossi un disegno sembrerei una pigotta non particolarmente graziosa né aggraziata, appesa al filo di un palloncino gonfiato con i piedi che ciondolano a mezzo metro da terra: una sognatrice che con gran fatica impegna nelle incombenze quotidiane il poco senso pratico che le appartiene, tutto il resto è un gran poltrire, rimandare, giustificare e infine considerare che non-vale-la-pena-di.
“Gloria era un amore… ma Lara era bravissima a scuola” – sta ricordando nostra madre mentre al finale del pasto assaggiamo la crostata. Io mi sono sempre ben guardata dal rivelare invece la mollezza che mi infiacchisce e ho vissuto per anni con la convinzione di aver giocato sporco perché restare nella pole position della considerazione e degli affetti familiari grazie ai risultati scolastici non mi è mai costato più di tanto. Mentre gli altri continuano a chiacchierare muovo istintivamente lo sguardo alla mia gamba sinistra, là dove sottopelle è ancora visibile il segno nero della mina. Mi torna in mente l’episodio della sua pugnalata alla mia coscia con la matita appuntita e poi naturalmente quello del lancio delle forbici scagliate all’altezza dei miei occhi. Capace anche di momenti di imprevedibile e irrefrenabile crudeltà, mia sorella deve avermi odiato sul serio da ragazza.
Gloria ha avuto diverse storie personali. Un marito con divorzio, un compagno con una figlia e separazione, alcuni altri flirt con uomini più giovani, di pari età, senza figli o con figli. Credo per un bisogno estremo di appoggiarsi ad un fulcro o forse per il terrore di leggersi dentro una profonda solitudine. Ecco perché quando mi ha presentato Maurizio, separato con un figlio, mite, accomodante, educato, colto, ne ho avuto l’impressione che stavolta fosse quello giusto e ho tifato sinceramente per lei, perché davvero le voglio bene e mi piacerebbe vederla serena e questo nonostante non ci sentiamo quasi mai, non ci frequentiamo e ci riserviamo toni piuttosto asettici nelle conversazioni telefoniche, quasi sempre comunicazioni di servizio, evitando di rivelarci reciproche confidenze.
Così oggi mi ha sorpreso che mi abbia chiesto di andare a trovarla. È trascorsa una settimana dal pranzo di Pasquetta, siamo sedute nel tinello. In pochi minuti di un tempo sospeso e dilatato durante il quale la rivedo piccola mentre muove le mani con gesti infantili e perciò, se lei me lo consentisse, le cingerei di nuovo le spalle col mio braccio per proteggerla dal mondo, mi ha raccontato di come lei e Maurizio si sono lasciati, così, apparentemente all’improvviso, in realtà dopo un periodo di maretta passato a cercare di chiarirsi. Lui chiedendole tempo, lei rispondendogli che no, non crede nel tempo che cambia le cose, che se ha avuto un ripensamento è perché è probabile che voglia riprendere la storia con sua moglie. Mi parla sconfortata, ma composta, rassegnata e mentre la ascolto e mi dispiaccio sinceramente per lei mi tornano in mente le mie parole a tavola quel giorno quando i miei familiari, critici verso mio marito assente anche in quell’occasione, avevano chiesto come mi andasse con lui visto che il nostro rapporto era stato burrascoso nelle settimane precedenti. Avevo risposto che “… certo, è vero, io gli ho dato molto, ma anche lui ha dato molto a me. Sono cose che sappiamo io e lui. Siamo insieme da vent’anni; prima di mandare tutto all’aria voglio essere sicura di aver tentato ogni strada possibile… e poi… abbiamo una figlia, una ragazza che adora entrambi. Non voglio che soffra inutilmente…”. Maurizio, seduto accanto a Gloria, riflessivo, lo sguardo abbassato e il viso serio, aveva commentato che si, non poteva non darmi ragione, riteneva che il mio fosse un discorso molto equilibrato.
Improvvisamente mi sento male. Riavverto quella fastidiosa sensazione da “prima della classe”. Realizzo che forse stavolta l’ho combinata grossa davvero. Ormai siamo adulte, ma d’istinto lo sguardo vaga in giro per sincerarsi che non ci sia da qualche parte a portata di mano un’altra matita appuntita, non si sa mai. Ma che vado a pensare… e comunque no, sul piano della credenza – la ammiro anche perché è una brava cuoca – mia sorella tiene alcuni utensili da cucina: una bilancia, un robot, un ceppo con i coltelli da chef.


Questo racconto ha partecipato al concorso Racconti nella Rete 2013:
http://www.raccontinellarete.it/?p=11751

lunedì 12 novembre 2012

"Orlando"

Oggi è una giornata moscia. Ho sentito freddo tutta la notte nonostante abbia dormito rannicchiata addosso a tuo padre. Non ce l’ho fatta ad alzarmi subito così vi ho ascoltati mentre in bagno discutevate dopo esservi fatti la doccia. Sporchi sempre lo specchio appannato. Ci siamo salutati a voce da una stanza all’altra perché doveva accompagnarti a scuola ed eravate in ritardo. Così adesso sono sola in casa e mi sposto indolente tra il soggiorno, la camera e la cucina in cerca di ispirazione per affrontare la giornata. Non migliora e mi obbligo ad entrare anch’io nella doccia, comunque devo andare al lavoro. Tutto mi fa fatica: insaponarmi, fare lo shampoo, sciacquarmi e con lo stesso spirito collego il phon alla presa e comincio ad asciugare i capelli. Allora me ne accorgo. Prima che l’aria asciutta dalla finestra aperta lo spazzi via lo catturo con lo sguardo, lo faccio mio, lo spingo in fondo al cuore. È il faccino sorridente che stamattina hai disegnato con l’indice. Sotto c’è la tua firma: ORL AN DO. Mi sento meglio ora. Dirò a tuo padre di non sgridarti più. Voglio che sporchi lo specchio tutti i giorni.

martedì 6 novembre 2012

Articolo su "Il Pungolo" di luglio 2012

http://www.ilpungolo.org/2012/07/14/la-storta-scrittrice-vince-concorso-racconti-in-rete/

"Rosso di sera"

Fonte: www.iloveroma.it



M’hanno svegliato in piena notte tre scoppi nella strada e ho capito subito che succedeva. Dalla finestra della stanza da letto riverberava una luce rossa. Adesso sono sul balcone per vedere a chi sia toccato stavolta, ma non mi sporgo, per precauzioni diverse. Una ragazza, due scale accanto e un piano più su, sta gridando affacciata: “Disgraziati! Nòva nòva… Appena comprata…”. Piange mentre guarda sconsolata la sua macchina che brucia. È scoppiato anche il quarto pneumatico. Adesso toccherà all’abitacolo. Fino a cinque minuti fa la via era deserta, ora è sotto gli occhi di tutto il vicinato che assiste impotente al rogo. Nel palazzo di fronte un tizio si sbraccia e urla di spostare le macchine parcheggiate ai lati. Per esperienza sappiamo tutti che le fiamme presto arriveranno al serbatoio. Intanto la colonna di fuoco raggiunge il terzo piano e sfiora le tapparelle delle finestre. Quella del fumo, con la sua puzza di zampirone, prosegue oltre la cima del palazzo, altri quattro piani sopra. Sicuramente la vedranno anche dall’altra parte del quartiere, d’altronde è l’effetto voluto. Decido che posso rimettermi a letto: la mia, di macchina, è già andata tempo fa eppoi in lontananza si sente l’eco della sirena dei pompieri che ormai conoscono bene la strada.

Laurentino 38 è un plastico essenziale in scala reale con poche figure umane in 3D a rappresentare la vita lungo gli stradoni, sotto i palazzi, nei campi da calcio, nelle piste da pattinaggio e nei parchi giochi ormai ridotti al minimo, tristi monumenti alle buone intenzioni. Un vuoto di tempo sospeso tra i campi dell’Eur a ridosso del Raccordo Anulare. Una leccata di vernice marrone-tristezza-perenne alternata al crema-sapore-acido per le torri e una di vernice grigio-nessuno per gli spazi comuni non riempiono i pori delle pareti erette con lastroni di cemento armato incastrati quasi per appoggio come si fa con i castelli di carte. Non si è nemmeno perso tempo a tamponare i vari interstizi: chi vive qui deve ricordare da dove viene e dove potrà andare/restare.

Perché questo posto sia il casino che è non mi ci è voluto molto a capirlo. Io qui ci sono arrivato quando i palazzi erano abitati da poco. I miei avevano fatto domanda per una casa e diciamo che ci è stato dato un tetto, un appartamento tra i condomìni del famigerato “nono ponte” - all’epoca persino sede del commissariato di polizia locale - proprio tra tutti il ponte preferito di notte da prostitute e drogati. Siccome i poliziotti furono rispediti al centro dell’Eur tra l’ambivalente soddisfazione generale, zingari e cavalli tornarono negli appartamenti, gli ex baraccati continuarono a coltivare orti sulle terrazze, non si contarono più le scorribande notturne e gli scontri tra balordi per stabilire le nuove gerarchie con tanto di sparatorie lungo i viali.

I viali: Gadda, Silone, Marinetti, di certo si sono rivoltati nelle tombe ogni notte tanto era sconcertante lo squallore al quale erano stati assegnati. Io, poi, abito in Via Baudelaire:

- “Come si scrive, mi scusi?”
- “Ba-u-de-la-i-re (quello de I fiori del male…)
- “Ah… si. Ecco qui. Spedisca il modulo. Ci vorranno almeno un paio di settimane…”
- “Grazie”.

<<A detta dello stesso Baudelaire l’opera va intesa come un viaggio immaginario che il poeta compie verso l’inferno che  è la vita>>.


 “Allora ecco il nesso con la strada di casa mia…” ho realizzato oggi dopo aver letto un paragrafetto su una rivista di quartiere mentre attendevo seduto su una panca il mio turno all’ufficio informazioni del municipio. Ecco, così mi spiego come mai proprio nella mia scala abiti un’intera famiglia di malviventi distribuita in diversi appartamenti. In uno, l’appartamento davanti al nostro, ci vive la pazza.

La pazza è mal sopportata da tutta la sua famiglia perché “pianta grane”. Percepisce la pensione d’invalidità e ogni tanto deve dare dimostrazione di meritarla così una sera sferra un paio di colpi con un cacciavite alla nostra porta d’ingresso, versa alcool nel buco che si è formato e tenta di accendere il fuoco. I miei se ne accorgono e mi chiamano al telefono urlando terrorizzati di andare di corsa a casa. Arrivo salendo le scale a tre a tre con un infarto in atto e dopo un po’ sul pianerottolo mi trovo ad affrontare anche la furia di quell’invasato del fratello, sceso dal piano di sopra a vedere come mai sto litigando con la sorella. Lo conosco bene. È uno degli ultimi balordi della famiglia rimasti dopo l’autodecimazione dei congiunti a base di pistole e droga. Preferisco fare pippa e scusarmi con lui per essermi alterato. Si tranquillizza e se ne va e penso che sia finita lì. Dopo qualche settimana mi brucia lo stesso la macchina. Questione di immagine.

È passato un po’ di tempo da quella volta. La pazza è ancora tra noi. Ieri pomeriggio l’ho notata alla fermata dell’autobus sotto il sole cocente di agosto, solo lei in un silenzio surreale, la "pensatrice" del quartiere seduta immobile a lato del viale deserto sotto gli occhi di decine di finestre boccheggianti delle alte palazzine di cemento crudo (qui per isolamento non si intende coibentazione) che torreggiano tutt'intorno. Ancora più ingrassata per via dei calmanti e nera come al solito, anche se da un po’ di tempo più gentile. Anche gli altri in effetti si potrebbero ormai ritenere cordiali vicini; contribuiamo persino con loro alle spese di gestione del condominio. È che soprattutto non vogliamo scontentare il caposcala, il famoso fratello, che si è incaricato senza votazione e due mesi fa ha annunciato con breve comunicato scritto apposto a lato dell’ascensore che si occuperà lui dei vari lavori necessari:

“LA COPIA DELE CHIAVI DEL CANCIELLO
CELL’A’ IL CAPOSCALA INTERNO 7”.

D’altro canto l’ente si rifiuta di fare manutenzione da quando lui per l’ennesima volta ha incendiato il garage. Ad ogni modo il cambiamento si vede già. L’androne, con le mattonelle da bagno color sorcio scelte a gusto suo e applicate fino a dove ha avuto il tempo di arrivare, ha tutto un altro aspetto ora anche se - ciangottava ieri un'inquilina mentre trasparente mi defilavo in fretta dal portone - "pure noi volevamo la greca come l'altra scala invece delle bacchette d'alluminio". Questione di economia.

Laurentino 38 oggi è un quartiere che cambia. Così pare sostenesse ieri il parterre de rois all’inaugurazione del nuovo centro culturale. Me l’ha raccontato il dipendente del municipio. Un avvenimento importante e sono state invitate le autorità. Per l’occasione è stato finalmente demolito il nostro ponte, perché sarebbe stato visibile dal centro culturale e anche perché era il più rovinato di tutti. Le terrazze davanti ai negozi erano continuamente allagate dagli occupanti e l’acqua ricadeva a pioggia sulle macchine e i passanti che attraversavano la strada di sotto. Gli sfollati non sapevano dove stare, lo capisco, ma era troppo un casino e così c'ha rimesso pure Armando e, questo si, mi è dispiaciuto di più. È stato sfrattato dalla rotonda dove passava tutto il giorno seduto all’ombra dei pini e della baracchetta costruita con l’ondulina e con qualche porta vecchia abbandonata lì vicino. La ruspa comunale è passata sdegnata sulle sue dotazioni di confort e ha ripristinato soddisfatta il necessario decoro, come se lo squallore dei "ponti" fosse tutto lì. Armando adesso non viene più. Quelli che coltivano gli orti ai lati della marrana l’hanno visto che vagava con lo sguardo un po’ perso nei dintorni. In attesa e nella speranza che ritorni, là dove sedeva sempre gli hanno messo una poltroncina di quelle da giardino, di plastica bianca, ma ingrigita dalla pioggia.

Si, forse questo quartiere cambierà e un giorno non sarà più un dormitorio per umanità rassegnata. Rigiro tra le dita la ricevuta del fax, ho appena spedito il modulo. Nell’indifferenza generale ho comunicato il cambio di residenza e me ne vado.




Racconto Premio 2° Concorso Letterario
del Comune di Campagnano di Roma,  giugno 2013
2° classificato
Di seguito il link al sito per partecipare al concorso Racconti nella Rete 2013
 
 

"Problemi di manutenzione ordinaria"

Fonte: www.flickr.com


Il 46 fermava davanti alla Chiesa Nuova. Scesa dall’autobus attraversavo Corso Vittorio e imboccavo Vicolo Sforza Cesarini. Se non c’era zia Elia da salutare proseguivo per Piazza dell’Orologio e da lì, passando per Via degli Orsini, di fronte a Palazzo Taverna svoltavo a destra per Via di Monte Giordano. A quel punto acceleravo il passo perché mancava pochissimo all’arrivo. Ad ogni civico una bottega. Il fabbro mi riconosceva per primo: “A piccolé… ‘ndo’ vai? Da papà? Ce sta, ce sta, senti come canta…”. Che fosse “Un dì all’azzurro spazio” oppure “Nessun dorma” o quello che gli andasse in quel momento, prendeva corpo dall’interno del palazzo di fronte alla salita del Montonaccio e risuonava fino a Piazza del Fico. Non potevi non essere orgogliosa di cotanto genitore. Finalmente arrivavo quasi di corsa al negozio, lui lo chiamava “il laboratorio”, e mi precipitavo a salutarlo e abbracciarlo forte. Qualche volta mi toccava aspettare l’acuto finale: “L’ho provato e riprovato tutto il giorno. Senti come fa…” mi sussurrava.
Mio padre era la colonna portante della mia vita. Una colonna dorica, però. Non amava i fronzoli. Nella sua tomba mia madre ha deposto un ramo di albero di fico, un tralcio di vite e un pezzo di legno. Era un ebanista raffinato, ricercato da antiquari, architetti e privati facoltosi, ma si divertiva a presentarsi: “Piacere, Vittorio. Faccio il falegname povero”. Io ero la prima dei suoi quattro pinocchi. Forse la più amata. Probabilmente la preferita. Credo perché, a differenza degli altri che lo hanno fatto molto prima di me, io ho trovato la forza di allontanarmi da lui soltanto quando ho saputo di aspettare un figlio. Avevo quarant’anni, ero sempre vissuta in casa con i miei genitori e da sette anni assistevo sconsolata al suo declino a causa dell’Alzheimer.
I portelloni delle finestre cedono uno dopo l’altro. Le cerniere arrugginiscono, cominciano a forzare, poi si bloccano e al primo colpo di vento, in genere alle raffiche di settembre quando le prime piogge raffrescano l’ultimo caldo estivo, le imposte precipitano a terra con un tonfo sordo. Naturalmente prima c’era mio padre che se ne occupava. Adesso preghiamo nostro fratello, tra i legittimi l’erede supposto più spirituale mentre non potrebbe essergli più diverso, di soccorrere la casa di famiglia nei suoi infiniti acciacchi.
Io per la mia invece ho trovato Giovanni. È un tuttofare di mezza età, di buona volontà, mattiniero, organizzato, lesto. Arriva presto e finisce tardi. E nel frattempo fa un mucchio di cose. Certo, non perfette come mio padre – il confronto non lo potrebbe reggere nessuno – ma senz’altro discrete. Ad osservarlo bene, un po’ me lo ricorda. Stesso fisico asciutto, quell’approccio sorridente al lavoro, con la battuta pronta. E poi canticchia mentre impasta o sega o incolla. Apprezza qualsiasi piatto prepari a pranzo e per questo lo invito volentieri a mangiare con noi. Mi da soddisfazione, proprio come faceva mio padre quando da ragazza sperimentavo in cucina e scherza volentieri col mio Orlando che oggi compie cinque anni.
Se non fosse per il fatto che mi sforzo di non essere credente in generale, potrei pensare che lo spirito di Vittorio-il-falegname-povero si sia calato nel corpo di Giovanni. Siccome non ci riesco, a non essere credente, allora mi ritrovo a immaginare almeno che mio padre da lassù abbia fatto in modo di farmi incontrare un suo alter-ego, uno che mi aiuti a risolvere quelli che sono ormai anche per me angoscianti problemi di manutenzione ordinaria. Continuo a scrutarlo da dietro la finestra, lui mi da le spalle, la maglietta sudata sotto il sole, va avanti e indietro per il giardino.
Non può accorgersi che sto piangendo.

"Ancora una volta"

Sì, potrei gridarti quello che mi gonfia il cuore, che vorrebbe esplodermi dal petto, che mi sale alla testa come uno sfogo che incontri un tappo, che m’intossica l’anima felice ormai anche di soli brevissimi istanti di colore, che impegna la mia mente anche quando non sono vigile e la obbliga al medesimo infinitamente ripetuto itinerario; quello che non reputo aver meritato per pensieri, parole, opere e omissioni, appunti sul nostro passato opaco, il presente inafferrabile e il futuro che non ho elementi per ipotizzare.

Sì, potrei significarti di quale massa solida pesano i tuoi silenzi al pari dei tuoi più onerosi insulti e darti prove di mancare di uno spirito altrettanto possente del mio, dal quale traggo forza se non per rialzarmi almeno per non soccombere, immobile, carponi, lo sguardo ostinato perché aver scelto male è già abbastanza.

Sì, potrei fondere il tuo magma consolidato e incandescente con una nuvola del mio vapore di purezza acquea e lasciarti lì, braccia e spalle ciondolanti, lo sguardo incredulo, Golia senza nerbo, “prova a parlare ancora adesso, riflesso solitario su un cristallo qualsiasi…”.

Sì, potrei ridurti alla stessa ragione di sempre, troppo invocata, provata, elusa per avere ancora un senso e un’utilità, materia plasmata da entrambi per il reciproco miserabile vantaggio, regola di un gioco sleale cui ho dovuto prestarmi per riuscire a ricondurti ogni volta a un più equo metro di giudizio.

Sì, potrei alzare al massimo il volume delle parole delle pagine alle quali mi hai negato da troppo tempo e stordirti di emozioni, immagini, sensi e significanti senza degnarti di un commento, lasciato a terra lì, ubriaco di un alcolico che non apprezzi.

Sì, potrei… indurre il tuo ego a morte certa mostrandoti che amo anche senza di te, che mi sono riamata nonostante te; potrei rammentarti con un sorriso di scherno il tuo esiguo valore nominale o farti credere ancora un dio, “per me farebbe lo stesso…”.

Invece si voltò dall’altra parte, rimboccò per bene le coperte sulle spalle e lasciò che il sonno, ancora una volta, come ormai da troppe sere, finalmente si prendesse cura di lei.




Racconto vincitore concorso "Racconti nella Rete" edizione 2012
nell'ambito della Rassegna Luccautori
inserito nell'omonima antologia edita da Nottetempo

Al racconto è stata abbinata l'opera appositamente realizzata da Lido Contemori. Di seguito il link con l'intervista all'artista:
http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=-TAq0-iHAi0#!






3° da sinistra, l'opera di Lido Contemori abbinata al racconto, esposta a Villa Bottini durante la manifestazione Luccautori 2012